La ricerca italiana che ridona speranza a chi vive il dramma della demenza

Il 2019 si era aperto con due studi che hanno messo in dubbio decenni di convinzioni legate alla relazione tra la deposizione di β-amiloide e l’invecchiamento delle cellule neuronali e quindi la demenza. Con la conseguenza che è sembrato vedere vent’anni di ricerche sugli effetti di questa proteina sul cervello andarsene a ramengo.

Grazie al cielo l’anno si chiude con la notizia di una ricerca, tutta italiana, condotta dalla Fondazione Ebri “Rita Levi-Montalcini” e che ha fatto il giro del mondo: i ricercatori dell’European Brain Research Institute hanno scoperto che la nascita di nuovi neuroni nel cervello adulto (neurogenesi) si riduce in una fase molto precoce della malattia di Alzheimer e questa alterazione è causata dall’accumulo nelle cellule staminali del cervello di aggregati altamente tossici di beta-Amiloide, chiamati A-beta oligomeri. Il team è riuscito a neutralizzare gli A-beta oligomeri nel cervello di un topo malato di Alzheimer introducendo l’anticorpo A13 all’interno delle cellule staminali del cervello, riattivando la nascita di nuovi neuroni e ringiovanendo così il cervello. La ricerca ha dimostrato in sostanza che la strategia messa a punto nei laboratori dell’Ebri permette di ristabilire la corretta neurogenesi nel modello di topo studiato, recuperando dell’80% i difetti causati dalla patologia di Alzheimer nella fase iniziale.

Immagine rappresentativa degli effetti benefici dell’anticorpo A13 sulle cellule neuronali (in rosso). A sinistra i neuroni malati; a destra i neuroni “curati” dall’anticorpo messo a punto dal team di ricerca Ebri (fonte: Scopa et al., Cell Death and Differentiation)

L’importanza di questa ricerca – spiegano i ricercatori Giovanni Scardigli e Raffaella Meli – è nell’essere riusciti «per la prima volta» a «intercettare e neutralizzare sul nascere i singoli “mattoncini tossici” che formeranno le placche extracellulari di A-beta (l’attuale bersaglio terapeutico della malattia di Alzheimer), prima che questi provochino un danno neuronale irreversibile».

La ricerca pone dunque le basi per lo sviluppo di nuove strategie utili per la diagnosi e la terapia di questa malattia neurodegenerativa: «Riuscire a monitorare la neurogenesi nella popolazione adulta – aggiungono – offrirà in futuro un potenziale strumento diagnostico per segnalare l’insorgenza dell’Alzheimer in uno stadio ancora molto precoce, cioè quando la malattia è clinicamente pre-sintomatica».

​Certo, questo studio è ancora allo stadio preclinico: il passaggio dalla fase preclinica alla fase clinica su pazienti richiede anni di sperimentazione e grandi finanziamenti, per valutare non solo l’efficacia, ma anche la sicurezza sull’uomo. Ma certamente per milioni di famiglie nel mondo che fanno i conti quotidianamente con una malattia devastante come la demenza la notizia ha riaperto la possibilità alla speranza.

Ed è con questa speranza che auguriamo alle famiglie di chi frequenta il nostro centro diurno e a tutti noi un sereno 2020.

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